Alberto Ziveri

Artist's biography

Alberto Ziveri è nato a Roma nel dicembre del 1908 dove è morto nel febbraio del 1990. “Il realismo di Ziveri non si è mai sottoposto a vane astrazioni né a polemiche politiche. E’ poesia della realtà quella di Ziveri, non cronaca della realtà”. Così scriveva Romeo Lucchese nel 1952 a proposito del dipingere dell’artista. Ziveri fa la sua prima apparizione in pubblico a soli vent’anni all’Esposizione di Belle Arti. Nel 1930 viene chiamato a Milano per il servizio militare, fra i bersaglieri. E’ proprio questa divisa che diviene per lui un’ossessione pittorica che ritroveremo spesso nei suoi dipinti e autoritratti degli anni intorno alla guerra. Nel 1933 espone alla Galleria Sabatello di Via del Babuino a Roma, insieme a Pericle Fazzini. La mostra ottiene un discreto successo di critica. Nel 1934 Ziveri matura una poetica personale, trovando nel tonalismo la sua strada. Influenzato dalla pittura di Piero della Francesca, che Roberto Longhi in quegli anni aveva riportato all’attenzione della critica, l’artista si dedica alla ricerca di una profonda dimensione spirituale e di un nuovo senso plastico, inteso come conquista del senso spaziale e della luce come nel caso dei Giocatori di Birilli

Nel 1937 Ziveri decide di intraprendere un viaggio a Parigi, in occasione dell’Esposizione Internazionale, che lo porterà poi anche in Belgio e in Olanda. Sarà un’esperienza fondamentale, che produrrà nella sua pittura un profondo cambiamento, come lui stesso ricorderà nelle sue memorie “[…] in Belgio e in Olanda ho imparato molto, non solo da Rembrandt e Vermeer ma anche da tutti quegli artisti olandesi e fiamminghi a torto considerati ‘minori’ che vanno a fondo della realtà nel loro mestiere”. Tornato a Roma, i tempi sono duri. Il sapore della guerra si fa sempre più vicino e Ziveri dipinge tele di grande formato come La rissa e La lotta di Popolane, quasi a voler raccontare in scene di quotidianità i tragici eventi che stavano per sconvolgere quel periodo storico. Sono per lui fonte di ispirazione “soprattutto le aiuole e il mercato di Piazza Vittorio, a due passi dalla sua casa in via Conte Verde”. Nel 1940 partecipa alla collettiva organizzata alla Galleria di Roma con gli amici Guttuso, Fazzini, Tamburi, Montanarini e Guzzi. E’ proprio quest’ultimo che firma il testo introduttivo al catalogo riassumendo il significato della mostra in poche parole: “Niente più realtà del sogno, ma sogno della realtà. Ancora dunque, poiché non abbiamo paura delle parole, un nuovo realismo”. Ziveri non manca di far parlare di sé. Espone tra le opere, fresche di pittura, lo scandaloso Ritratto della Signora Natale, dove la protagonista è ritratta come tutte le altre donne di Ziveri “grasse, plebee, mature venditrici di carote e cavolfiori, oppure mogli di tranvieri”. E’ proprio davanti a questo dipinto che il gerarca fascista, Bruno Bottai, decide di farsi fotografare. Argan, il suo segretario, “prende appunti per un articolo che dovrà uscire sulla rivista del Ministero «Le Arti»: non c’è dubbio che, finito l’omaggio alla tradizione, l’espressione del quadro si sottrae alla semplice emozione per riportarsi immediatamente alla coscienza. (Ziveri in un angolo pensa che sono parole difficili per non dire: «realismo»)”. Non lascia tempo ai critici di poggiare la penna che alla Quadriennale del 1943 Ziveri espone un altro gigantesco e scandaloso quadro, Giuditta e Oloferne, tela che Renzo Vespignani ricorda “vasta e tenebrosa, e come strinata dal fumo delle candele. Di Oloferne non saprei dire, ma la Giuditta scosciata mi colpì subito come immagine viva, al di là della pittura perché nella pittura, interamente riconoscibile. Aveva odori e sudori familiari e desiderati, e peso nel ventre, e prepotenza e ritrosia plebee”. Con questa tela Ziveri, come Pirandello, che in quello stesso periodo dipinge le aspre e desolate spiagge, sembra presagire con drammatica lucidità l’imminente conflitto. E sono ancora le donne scosciate e gli uomini in divisa a popolare i postriboli realizzati sul finire della guerra, e che in un gioco di chiaroscuri raccontano della noia e del “mestiere di vivere” come quello in Collezione Iannaccone. “Lavorò al dipinto per diversi anni, e dovetti nasconderglielo perché si decidesse a dedicarsi ad un altro lavoro. Quell’interno era la nostra prima camera da letto. Ci eravamo appena sposati, i soldi erano pochi e quindi adattammo la camera a studio. Tutte e quattro le modelle raffigurano sempre me, mentre il soldato è un manichino” disse Nella, la moglie “eravamo così gelosi l’uno dell’altra; io non volevo che lui avesse altre modelle e lui non sopportava che stessi in braccio ad un vero uomo”.