Shirin Neshat

Artist's biography

Shirin Neshat nasce nel 1957 a Qazvin, in Iran dove cresce in una famiglia agiata immersa nella versione più occidentale dell’Islam. Nel 1974 lascia il suo Paese per andare a studiare negli Stati Uniti. Dopo la Rivoluzione islamista decide di rimanere all'estero e tornare a casa per la prima volta solo nel 1990. Un viaggio che l'ha sconvolta e da allora ha preferito un esilio volontario – la sua ultima visita in Iran risale al 1996 – passato tra la California e New York, dove ora vive e lavora. Ormai da oltre 20 anni espone in tutto il mondo la sua arte. Nella testimonianza raccolta dal critico RoseLee Goldberg si scoprono gli inizi della sua carriera artistica: “Compra pistole e fucili veri, li mette in un sacchetto di plastica, li porta a casa, così, come se niente fosse, prendendo la metropolitana. Quindi invita nel proprio loft un amico fotografo, che già collabora con altri artisti e performer, e si fa ritrarre avvolta dalla testa ai piedi nel velo nero del chador: la canna di una pistola accostata al viso dell’artista, il pendaglio di un orecchino; un fucile appoggiato tra i piedi nudi – una violazione tanto sottile quanto sfacciata della legge coranica, che vieta qualsiasi forma di nudità”. Mi considero “espressione della realtà, non tanto per gli oggetti che produco nel mio essere artista, ma proprio perché mi sento inclusa nella realtà delle cose e nel loro accadere. Per questo sto cercando di andare oltre i tradizionali mezzi dell'arte quali la scultura e la pittura, per indagare i linguaggi multimediali, perché hanno una forza più coinvolgente”. L’artista fonda tutta la sua poetica su continue citazioni della propria cultura, operando una nuova rappresentazione del corpo della donna contro la cultura islamica che storicamente lo ha negato. Nell’ufficio del collezionista Giuseppe Iannaccone è esposta un’opera fotografica, Speechless realizzata nel 1996, tratta dalla serie di ritratti “Women of Allah” (1993-1997). Le immagini fotografiche di questa prima serie hanno come punto di partenza la poesia, che diventa anche il sigillo finale dell’opera. Questi primi scatti fotografici nascono come una sorta di performance privata, realizzata seguendo i versi di un poema che ispira l’artista nella scelta delle luci, dei costumi e degli oggetti di scena. Una volta sviluppata la fotografia, è quella stessa poesia a essere tracciata a mano dalla Neshat, con penna e inchiostro di china, direttamente sulla superficie fotografica: un intreccio di disegni che è la scrittura Farsi, che si fa “voce della foto, che rompe il silenzio della donna ritratta”. Vincitrice della Biennale di Venezia nel 1999, nel 2009 con il suo primo lungometraggio dal titolo “Donne senza uomini” vince il Leone d'Argento per la miglior regia al 66º Festival di Venezia.